
Le ciminiere pendono. Pendono verso l’esterno come i minareti del Taj Mahal. Se questi fossero crollati, non si sarebbero abbattuti sulla cupola sotto la quale riverbera il ricordo dell’ amatissima moglie del gran Mogol. Se invece dovessero crollare le ciminiere, finirebbero a mare e non sui tetti dello stabilimento. Non so se anche questa pendenza è voluto o è solo un effetto del tempo e della salsedine, ma l’ effetto che fa è quello di far assomigliare anche l’ antica tonnara Florio di Favignana ad un mausoleo, un memoriale laico di un’ attività strettamente legata al ciclo della natura ed ai bisogni di sopravvivenza ma nello stesso tempo divisiva nella sua macabra spettacolarità e nelle conseguenze sull’ ecosistema.
La pesca con le tonnare non ha terminato il suo ciclo per la sua antieconomicità. O meglio, l’ antieconomicità è stata una conseguenza della carenza di tonni pescati. Nell’arco di un secolo e mezzo la quantità di pescato si è ridotta di cento volte, da oltre diecimila a meno di cento. L’ eccessivo sfruttamento ha quasi causato la scomparsa dei tonni. Non è naturalmente solo una storia italiana, ma siamo a Favignana e si parla di questo.
Le vicende dello sfruttamento industriale della tonnara di Favignana durano poco più di un secolo, fino agli anni 70 del secolo scorso. Già alla metà del ‘600 un Genovese, il marchese Camillo Pallavicini, aveva investito nella pesca del tonno favignanese, dando avvio anche all’ antropizzazione dell’ isola, in precedenza sostanzialmente disabitata e ricca di animali e alberi. Che differenza con i panorami di oggi, eh?.

Erano strani quei tempi, diversi dai nostri. Se eri ricco e volevi una villa al mare non ti limitavi a costruirla o a comprarne una; no, acquistavi tutta l’ isola e ci facevi quello che volevi. Infatti, dopo un rapido passaggio dello stabilimento nelle mani di un altro Genovese, Giulio Drago, che proporrà per la prima volta la conservazione del pesce in latta anziché in barile, nel 1874 Ignazio Florio acquista tutta Favignana ed inizia la costruzione dello stabilimento per il trattamento industriale del tonno pescato con la tecnica della tonnara. E costruisce anche il suo palazzotto, che fa ancora bella mostra di sé in pieno centro del paese.
In un secolo è racchiusa la storia industriale della trasformazione di questo splendido sgombride, con le relative innovazioni che ai tempi facevano scalpore. Per esempio, la lattina con apertura a chiave. Quando fu inventata, era talmente rivoluzionaria che la presentarono all’ Esposizione Universale! Fino a quel momento per aprire una lattina di tonno c’ era bisogno di un apriscatole, di un po’ di fatica ed attenzione. Con l’ apertura a chiave tutto diventava semplice ed immediato, il tonno in scatola si tramutava in alimento per il picnic o per un veloce pasto fuori. L’ apertura a strappo è un’ invenzione del tardo ventesimo secolo.

Ma aldilà delle innovazioni industriali, la saga della tonnara è soprattutto la storia dei tonnaroti, le centinaia di uomini che furono impegnati in un’ attività che durava solo un paio di mesi e che procurava da lavorare e mangiare per tutto il resto dell’ anno.
Non parlate a Favignana, perciò, di supersfruttamento e di protezione dell’ ecosistema. Ciò che oggi tendiamo a vedere in termini negativi, qui è ancora vissuto come vita, fede e tradizione.
Qui si parla di campari, di protezione chiesta ai santi del cielo e del perdono invocato ai tonni dal vice rais nell’ acqua rossa della camera della morte, quando tutto era terminato ed i pesci erano ormai avviati verso la cottura.
Dopo la saga dei Florio, fu un’ altra famiglia genovese, Parodi, a scrivere la parola fine nell’ ultimo ventennio del secolo scorso. Lo stabilimento in abbandono è stato successivamente acquistato dalla regione, poi restaurato ed adibito a museo.
Ma l’ epopea della tonnara è veramente terminata solo nel 2007, quando si è chiusa l’ ultima mattanza, ormai organizzata destinata solo a procurare pescato per le industrie conserviere non favignanesi ed a soddisfare la morbosità dei turisti. L’ ultimo raìs è ancora vivo ed è facile scorgere la sua zazzera bianca in paese o al porto. Ma anche lui dovette arrendersi all’ evidenza: i tonni catturati furono poco meno di cento. Non ci paghi neanche le spese. Date un’ occhiata alle lapidi sul muro all’ ingresso dello stabilimento: celebrano le annate più pescose ed elencano il numero dei pesci catturati ed il nome del raìs. Nel 1859 la mattanza permise l’ uccisione di 10.159 tonni.

Quanta somiglianza con la storia della pesca delle aringhe nell’ Artico islandese!
Il sovrasftruttamento delle risorse naturali non lascia scampo e regala gli stessi risultati, tra i ghiacci del Nord e nel caldo mare Mediterraneo.
La visita al museo delle tonnare inizia proprio con la vista delle ciminiere pendenti verso l’ esterno, e continua con l’ orologio che non segna più il tempo perché le lancette proprio il tempo se le è portate via, e resta lì poco utile ma non ancora deformato come quelli di De Chirico. Allineati sotto l’ orologio, i calderoni per la cottura assomigliano ai pentoloni dei cannibali nelle vignette della Settimana Enigmistica a metà del secolo scorso.
Bastarde, muciare e parascalmi, impressionanti per le loro dimensioni, attendono ormai in eterno, puntate verso un orizzonte che non assaggeranno più. I verricelli del molo di sbarco sono anch’ essi arrugginiti, rivolti verso il mare ormai quasi vuoto.

“Le operazioni di installazione della tonnara iniziavano verso la metà di aprile” mi racconta Federico, occhi azzurri, età indefinibile e profonda conoscenza dell’ isola, ed intanto mi indica il fungo, lo scoglio attorno al quale veniva fissato il cavo d’ acciaio che avrebbe sostenuto l’ intera struttura della tonnara, per cinque chilometri sopra e sotto il mare.
“Ci volevano almeno 45 giorni per terminare il lavoro, poi si aspettava l’ arrivo dei tonni.” Entro agosto era tutto nuovamente smontato.
A Favignana non resta quasi più nulla dell’ attrezzatura di tonnara; sulla spiaggia della Praia sono ancora in mostra le ancore che servivano per assicurarla al fondale, nell’ ex stabilimento ci sono brandelli di reti, galleggianti di latta, e la croce di S. Pietro santo protettore della tonnara. Collocata al centro della struttura, era ricoperta di immagini di altri santi oltre al protettore. Meglio abbondare…..
Era qui che il rais e i tonnaroti si fermavano ad innalzare preghiere per avere un pescato abbondante. Le preghiere hanno funzionato fino a poco più di un secolo fa, poi neanche i santi hanno potuto niente contro la devastazione dell’ uomo.

Ti è piaciuto? Ti andrebbe di leggere ancora le mie storie di viaggio e fotografia?
Perché non ti iscrivi alla mia newsletter?
Ne riceverai una solo quando pubblicherò un nuovo articolo ed i tuoi dati non verranno mai comunicati a terzi!
Se invece vuoi continuare a goderti belle foto di viaggio, usa il menu in alto e fai un giro per il mio sito!
Sapevi che puoi spedire gratis tutte le e-card che vuoi? Scegli le foto che ti piacciono di più e poi clicca sul bottone E-Card in basso a destra per spedirle a chi vuoi. E’ semplice ed è gratis!