La pelle dell’ orso: cultura inuit

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Donna inuit che lavora pelle di orso polare su telaio in legno, cultura inuit Groenlandia

La cultura inuit in Groenlandia si manifesta in ogni gesto quotidiano, nelle tradizioni tramandate da generazioni. L’ho scoperto per caso, fotografando i cani da slitta con lo sguardo rivolto verso il basso. Lei invece era sul tetto della sua casa e stendeva la pelle dell’orso per farla seccare.

Cani da slitta in Groenlandia, cultura inuit

La lavorazione delle pelli nella cultura inuit

Qui la pelle dell’orso appartiene a chi ha avvistato per prima l’animale e non a chi l’ha ucciso. Evidentemente in quella casa abita qualcuno con un’ottima vista.

L’orso bianco che in realtà è nero

L’orso bianco, in realtà, è nero. Ve ne accorgete guardando il muso e le zampe. Sono le uniche zone del corpo che non sono completamente ricoperte dai peli: sono nere.

Sono i peli a dare l’illusione del bianco. Privi di pigmentazione e cavi al loro interno, favoriscono il passaggio dei raggi ultravioletti, che sono assorbiti dalla pelle scura del plantigrado e lo riscaldano.

In effetti l’orso bianco non soffre mai il freddo, casomai il suo problema è il surriscaldamento. Protetto dai peli e da uno strato di grasso che può superare i dieci centimetri, l’orso è in grado di nuotare per ore nelle acque gelide del Mar Glaciale Artico. Ma dopo un’impegnativa sessione di caccia, anche al freddo invernale di queste latitudini, l’orso ha caldo. E non potendo eliminare il calore in eccesso con la sudorazione, deve inventarsi altri metodi. Avete mai visto nei documentari le scene di questi enormi plantigradi che si stendono a pancia in giù sul ghiaccio e poi iniziano a rotolarsi? Non stanno giocando. Si stanno raffreddando, cercano di abbassare la propria temperatura corporea.

Il ruolo delle donne nella cultura inuit

Stavolta però il plantigrado era sì a pancia in giù, ma morto e scuoiato. La pelle era stesa all’interno di una cornice rettangolare di legno. Il lavoro della donna consisteva nel fissare la pelle alla cornice, assicurandosi che restasse tesa. Bisogna farlo con un filo molto doppio, quasi uno spago, e grossi aghi. Il materiale è grossolano ma i gesti sono quelli della ricamatrice. La pelle rimarrà poi esposta al sole e al vento ad asciugare per essere poi convertita in caldissimi capi di abbigliamento ed accessori.

Qui in Groenlandia, non ci sono piante, non ci sono animali domestici, a parte i cani. Questo significa niente fibre per realizzare vestiti, niente lana. Gli stivali invernali si realizzano ancora con la pelle di foca. E gli abiti per stare caldi si fanno con la pelliccia d’orso.

La società inuit si basa sulla divisione del lavoro tra uomini e donne, i cui compiti sono tuttavia strettamente legati. Mentre l’uomo si occupa della caccia, dell’allevamento dei cani, della manutenzione del kayak e della slitta, alla donna è affidato il trattamento delle pelli degli animali cacciati per la produzione dei capi d’abbigliamento e delle calzature per tutta la famiglia, nonché per le tende e per i rivestimenti delle imbarcazioni.

La buona riuscita delle battute di caccia dipende anche da come è abbigliato un uomo, da quanto è protetto dal freddo; ed è quindi evidente che è la sinergia tra il lavoro dell’uomo e della donna a creare il benessere in famiglia. Ed è proprio per questo che gli uomini – qui – riconoscono che mai sarebbero capaci di sopravvivere senza il prezioso contributo delle donne.

La pelle dell' orso

Un incontro silenzioso

Siamo saliti su una montagna di terreno per guardare meglio la donna al lavoro sulla pelle d’orso; lei era concentrata e non si è accorta di noi. Inumidiva il filo passandone l’estremità in bocca, lo infilava nell’ago che poi passava in un lembo della pelle. Il filo veniva poi fatto girare attorno alla cornice e di nuovo fissato alla pelle con un nodo. Poi ricominciava.

Sono stati i figli, saliti anche loro sul tetto, a notarci e a dirle di noi. La donna inuit ha alzato per un attimo gli occhi dal suo lavoro, ci ha sorriso e ha ripreso a lavorare.



Questi racconti sono tratti dal mio libro “Ventisette giorni e tre notti”, totalmente autoprodotto, corredato di oltre duecento fotografie a colori.


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